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Gestore della settimana: “La globalizzazione? Un ostacolo”

10/14/2019 | Erik Weisman e Robert Almeida*

Più il mondo diventa interconnesso, più i benefici marginali dell'iper-globalizzazione si riducono


Da ormai quasi una generazione è in atto una nuova forma di globalizzazione più rapida, da alcuni definita ‘iper-globalizzazione’. Le multinazionali, in parte sulla spinta del NAFTA, dell'adozione dell'euro e dell'adesione della Cina alla World Trade Organization, hanno cavalcato l'onda della globalizzazione sfruttandone il supporto strutturale sui margini.

Tuttavia, visti i crescenti timori che la globalizzazione possa aver raggiunto i suoi limiti, viene da chiedersi se i margini siano a rischio. 
A seguito della crisi globale del 2008, i direttori finanziari sono diventati estremamente abili nello sfruttare ogni sorta di ingegneria finanziaria per accrescere i margini, gli utili e i prezzi delle azioni. Hanno adottato strategie a bassa intensità di capitale, incrementato la leva finanziaria, partecipato a fusioni e acquisizioni finanziate da debito ed effettuato riacquisti di azioni proprie.

Inoltre, le aziende si sono fatte astute e hanno capito come potevano ridurre i costi, gestendo catene globali del valore, acquistando beni e servizi intermedi da tutto il mondo e trasferendo gli impianti di assemblaggio in paesi a basso costo di manodopera. Allo stesso tempo hanno partecipato a operazioni di arbitraggio fiscale e regolamentare 
a livello internazionale. 
Tuttavia, più il mondo diventa interconnesso, più i benefici marginali dell'iper-globalizzazione si riducono. Il valore aggiunto prodotto dal NAFTA, dalla creazione dell'eurozona e dalla delocalizzazione sembra aver raggiunto il limite. 


Quanto di meglio si può avere? 


Mentre la globalizzazione ha avuto alti e bassi per migliaia di anni, il sistema creato dagli accordi di Bretton Woods, all'origine dell'odierna catena globale del valore, è stato sostenuto dal ruolo di valuta di riserva mondiale svolto dal dollaro statunitense, da istituzioni come la World Trade Organization e il Fondo monetario internazionale e dagli Stati Uniti in quanto prima potenza mondiale. 
Il funzionamento della catena globale del valore si è sempre basato su un incessante calo delle tariffe commerciali. Tuttavia, sono sempre più numerosi i segnali indicanti che la globalizzazione possa aver raggiunto il limite.

Tra questi, le crescenti disuguaglianze dei redditi e, contestualmente, l'avanzata del populismo. 
 La guerra commerciale sino-statunitense mette in dubbio la sostenibilità di questo modello,
in un mondo in cui i dazi doganali potrebbero cambiare rotta e interrompere la loro flessione decennale. Se gli Stati Uniti dovessero applicare sanzioni del 25% su tutti i beni d'importazione cinese, il livello totale delle tariffe si avvicinerebbe ai massimi dagli anni Sessanta.

Eppure, le catene globali del valore non sono state concepite per funzionare parallelamente a dazi di una simile entità. A livelli così elevati, tali catene rischiano di sgretolarsi. Allo stesso tempo, le barriere non tariffarie sembrano in aumento ovunque. La catena globale del valore è stata ideata per un mondo caratterizzato da dazi contenuti e nel quale il libero scambio è considerato un bene di pubblica utilità. I recenti avvenimenti mettono tuttavia in discussione questo punto di vista, rischiando di destabilizzare questa catena globale di diverse migliaia di miliardi di dollari.

Nessun asso nella manica 

In un contesto in cui i direttori finanziari hanno già fatto ricorso a tutti gli strumenti a propria disposizione, è possibile che ci sia qualche margine d’errore da un punto di vista delle valutazioni delle attività? Secondo noi non molto. Se la globalizzazione fa marcia indietro e le catene globali sono a rischio oppure costrette a effettuare costosi aggiustamenti, è probabile che i margini lordi ne risentiranno negativamente.

Le società che hanno generato margini, utili e performance azionarie superiori alla media grazie a una gestione efficiente delle catene produttive globali potrebbero ritrovarsi in posizioni insostenibili e non godere più di vantaggi competitivi. In un panorama in cui il management è rimasto con pochi assi nella manica e dove le perturbazioni delle catene produttive rischiano di mettere in pericolo i margini, le aziende con business model realmente differenziati, una proprietà intellettuale unica e un solido valore del marchio dovrebbero avere migliori probabilità di uscire vincitrici da questi cambiamenti globali. Al contrario, quelle più a rischio potrebbero essere le aziende che non sono in grado di spostare rapidamente la propria produzione per evitare le ripercussioni delle tariffe oppure le imprese senza pricing power.

Queste potenziali anomalie rendono la selezione dei titoli sempre più importante alla luce della nuova dispersione del mercato sorta dopo un decennio di quotazioni monolitiche trainate dagli indici. In sostanza, con l'avanzare del ciclo economico gli investitori sono diventati ancor più esigenti ed evitano sia società altamente indebitate e margini lordi in calo che titoli ciclici di qualità inferiore. Come spesso accade, la continua evoluzione dei contesti imprenditoriali ha la capacità di mettere in luce le vulnerabilità aziendali, accrescendo l'importanza della selettività.

*di Erik Weisman, chief economist e Robert Almeida, portfolio manager di MFS IM

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